Errare è umano, perseverare diabolico.
Non so se il proverbio può essere trasposto alla decisione di Putin in merito al pagamento delle forniture energetiche (e, in senso più ampio, a quanto sta mettendo in atto dal 24 febbraio, giorno in cui ha deciso di invadere l’Ucraina). Di certo, però, sembra sempre di più la decisione di chi è “obbligato” a seguire una strada da cui non è possibile tornare indietro, se non a costo della perdita della sua leadership politica.
Nei fatti, la riconfermata volontà di accettare solo rubli a fronte del gas e del petrolio forniti all’Europa nulla cambia rispetto a quanto contrattualmente previsto ad oggi: l’unica differenza è che le varie società che ricevono le forniture (per esempio la nostra Eni) dovranno aprire c/o Gazprombank (come noto insieme a Sberbank una delle 2 banche non raggiunte dal blocco dello Swift, appunto in quanto tutti i pagamenti relativi ai flussi energetici passano da loro), oltre al conto in €, un conto in rubli: una volta effettuato il pagamento nella valuta di riferimento, la società dovrà autorizzare la vendita di € (o di $) per trasformarli in rubli. La manovra di Putin potrebbe anche essere letta come un tentativo di indebolire il “fronte occidentale”, ad oggi ancora piuttosto compatto nel rispondere alla guerra e alle minacce “economiche” del Presidente russo. Per quanto una soluzione del conflitto sia ancora lontana, si può dire che il vero sconfitto ad oggi è lui.
La guerra “sporca”, quella che si combatte in Ucraina, che ha già lasciato dietro di sé migliaia di morti, milioni di profughi e miliardi di danni, vede infatti soccombere ogni giorno di più l’esercito russo, nonostante le bombe continuino a distruggere le principali città del Paese. Ancor di più, si cominciano quantificare i danni anche per quella economica, per quanto le sanzioni al momento non si siano ancora del tutto manifestate. Indubbiamente l’autocrate russo ha fatto male i suoi conti, o perché mal consigliato o perché non accetta consigli da nessuno: da una parte, la resistenza ucraina lo sta spiazzando militarmente, con un esercito che anziché avanzare in alcune zone ha iniziato a ritirarsi, dall’altra l’idea di “infilarsi” nei distinguo tra i vari Paesi membri UE si sta rivelando ad oggi un ulteriore passo falso, provocando, anzi, un collante molto forte negli avversari.
Peraltro, neanche l’occidente (e tanto meno l’Ucraina) può definirsi vincitore. Se non altro da un punto di vista economico.
Come dimostrano i dati comunicati ieri, l’inflazione, per rimanere all’Italia ha fatto un ulteriore balzo in avanti, arrivando a toccare il 6,7%, il dato più alto dal 1991 (fase quella non facilissima per il nostro Paese, costretto l’anno successivo, come molti ricorderanno, alla svalutazione della lira e a quella che passerà alla Storia come una delle Finanziarie più dure che si ricordino, varata dal Governo Amato e pari a 100.000 MD di lire); il mese scorso si era al 5,7%, ma l’aumento ulteriore di gas e petrolio ha contribuito in modo fondamentale. Va detto che l’inflazione core, vale a dire quella al netto dei prodotti energetici e di quelli alimentari, altro “contributore” pesantissimo, viste le dinamiche dei prezzi delle soft commodities e dei fertilizzanti per le coltivazioni, rimane modesta, per quanto sia passata dall’1,7 al 2%. A livello tendenziale, l’inflazione “acquisita”, quella cioè già raggiunta anche se da qui a fine anno i prezzi rimanessero invariati, ha già raggiunto il 5,3% (1.6% quella “core”).
Non va meglio negli USA, dove i prezzi sono in aumento del 6.4%.
A livello europeo, le proiezioni macroeconomiche (3 scenari ipotizzati: base, negativo, gravemente negativo) indicano rispettivamente un livello di inflazione del 5,1%, 5,9% e 7,1%, mentre già nel 2024 i 3 scenari riportano un’inflazione all’1,3%, 1,6% e 1,9%, comunque sotto il 2% che è l’obiettivo della “forward guidance” della BCE. Una situazione quindi ben diversa da quella americana, dove l’inflazione core già nel 2021 era al 4%, salita all’inizio di quest’anno al 6%, al punto da costringere la FED ad interventi ben più determinati rispetto alla “collega” europea.
Ieri mercati poco brillanti ovunque, con lo S&P sceso dell’1,57%, con un’accelerazione nel finale di seduta.
Questa mattina indici del Far East tendenzialmente deboli: Nikkei – 0,54%, Hong Kong – 0,65%. Fa eccezione Shanghai, che cresce dello 0,82%.
Futures moderatamente positivi ovunque.
La decisione di Biden di “liberare” le riserve strategiche di petrolio per oltre 180 ML di barili ha fatto cadere il prezzo, con il WTI che ieri ha perso oltre il 5%. Caduta che non si ferma neanche questa mattina, con un ulteriore calo dell’1%, che porta le quotazioni sotto i $ 100, a $ 99,28.
Gas naturale a $ 5,629, – 0,39%.
Oro a $ 1.942, – 0,67%.
Spread a 149 bp, con il BTP sempre nei pressi del 2,20%.
Treasury a 2,32%, con il 2 anni “ricacciato” a 2,29%, sempre però in zona “avviso recessione”.
€/$ a 1,1059, con il biglietto verde in leggero recupero.
Bitcoin in caduta del 5%, a $ 44.795: la “soluzione” sui pagamenti in rubli è forse all’origine dello scivolone.
Ps: data “storica” quella di ieri, almeno per il nostro Paese. Con il 31 marzo, infatti, è finita l’emergenza sanitaria. Da oggi, quindi, nuove regole determineranno la nostra quotidianità. A cominciare forse da quella più attesa, almeno per parte della popolazione di sesso maschile: gli stadi tornano alla “piena occupazione”. Intanto, però, l’Italia è fuori dai mondiali….